Psicoterapia psicoanalitica

07.04.2013 11:42

Principi di psicoterapia psicoanalitica

Rosario Di Sauro

Introduzione

In psicoanalisi, si è passati da una concezione di patologia basata sul conflitto ad una basata su un arresto dello sviluppo evolutivo in termini di capacità di emozionalità matura (Lachmann, 2002; Aron, 2005; Gabbard, 2005; Stern, 2004, 2005).

Questo processo ha determinato un graduale spostamento nell’intendere il cambiamento terapeutico: là dove prima, infatti, esso era visto come un itinerario quasi esclusivamente intrapsichico (Freud) ora è considerato come una messa in moto di un divenire relazionale attraverso il quale ‑ passando per il pre-requisito rappresentato dalla possibilità di vivere la relazione con il proprio terapeuta ‑ si modificano le relazioni oggettuali (Mitchel, 2000). Conseguentemente, si è spostato anche il focus sui fattori che producono il cambiamento.

Nei modelli classici, freudiano e kleiniano, il solo “attore” sembra essere il paziente osservato, con partecipazione del terapeuta, sebbene lo stesso Freud avesse indicato, tra i fattori di cura, anche “le caratteristiche peculiari dell’analista” (Freud, 1937) che potremmo oggi sinteticamente riassumere nella contemporanea capacità di essere assertivo e propositivo.

Nel modello interpersonale e post–interpersonale, paziente e terapeuta sono entrambi attori, anche se di quest’ultimo viene messo in risalto, a seconda dell’indirizzo teorico, a volte il ruolo di “osservatore che partecipa”, a volte quello di “partecipante che osserva”.

Tale differenza si spiega con le posizioni originarie delle varie correnti teorico-culturali che sono, nel corso degli anni, confluite all’interno della prospettiva intersoggettiva.

Queste spaziano dalle teorie interpersonali a quelle delle relazioni oggettuali, dalla Psicologia del Sé all’integrazione dell’Infant Research, ma guardano tutte al rapporto terapeutico come ad un “campo” comune nel quale la mente diadica, interazionale, interpersonale e sociale, del paziente e del terapeuta, possono incontrarsi, e che viene definito, secondo i casi, prospettiva diadico-sistemica (Beebe, Lchamann, 2003), intersoggettivismo (Stolorow, Atwood, 1995), costruttivismo sociale (Hofmann, 1991), modello relazionale (Mitchell, 2000).

Ed è proprio il concetto di campo dinamico che, prospettato originariamente, negli anni sessanta, dai Baranger, amplia oggi la visuale della relazione terapeutica annettendovi il punto di incontro tra “reale” e “inconscio”, “manifesto” e “sotteso” dei due partecipanti. Cerchiamo di chiarire, per quanto in maniera sommaria e relativa, quanto sopra esposto in un divenire storico un po’ più organizzato.

Una digressione storica sui paradigmi psicoanalitici

In psicoanalisi, a seguito di un lungo processo storico–evolutivo, come sopra accennato, si è determinato un progressivo spostamento dal paradigma della scienza positivista, fondata sull’osservazione obiettiva, al paradigma di una scienza basata sull’idea che nella costruzione dei fenomeni esiste una incidenza reciproca tra osservatore e realtà. Tuttavia, come si è evidenziato in un recente lavoro (Di Sauro, Pennella, 2005), al di là della preoccupazione di Freud di sostanziare la sua teoria ponendo l’attenzione sulla realtà interna piuttosto che su quella esterna, è piuttosto chiaro che la sua teorizzazione interpreta gli eventi psichici in una prospettiva fondamentalmente unipersonale, in una accezione, quindi, coerente con il paradigma positivistico: in tale prospettiva è lecito affermare che ciò che generalmente può accadere tra l’analista ed il paziente sia da riferirsi alla dinamica intrapsichica di quest’ultimo e solo in modo marginale alle caratteristiche e partecipazione dell’analista stesso.

Per chiarezza espositiva e finanche storica, va detto che l’impostazione freudiana non deve essere interpretata come totale assenza delle relazioni oggettuali, (basti pensare ad esempio a ciò che codifichiamo come “complesso edipico”) ma che semplicemente essa è ricondotta in posizione secondaria rispetto alla dinamica intrapsichica (Di Sauro, Pennella, 2005). Ciò ha portato, di conseguenza, a relativizzare il modello pulsionale, incentrato sull’intrapsichico, trasformando la psicoanalisi, da psicologia monopersonale a psicologia relazionale e/o bipersonale e sistemica in cui sia solidamente mantenuta anche una prospettiva intrapsichica.

In tal senso, l’attenzione si sposta dalle pulsioni agli affetti, in qualità di costrutti motivazionali centrali, visti però non come prodotti di meccanismi intrapsichici di una mente isolata, ma come proprietà emergenti di sistemi multipersonali di influenza reciproca. Il desiderio, allora, viene concepito all’interno di una relazione. L’individuo viene così considerato, fin dalla nascita, come essere umano che si realizza all’interno di una molteplicità di relazioni (Stern, 2005; Winnicott, 1969).

I rapporti oggettuali all’interno dell’attuale panorama della psicoanalisi si evidenziano, quindi, da una distinzione fondamentale tra le teorie basate sulle pulsioni e le teorie basate sulla relazione. Secondo il primo gruppo, rappresentato essenzialmente dalla psicoanalisi freudiana, i rapporti sono un mezzo per la soddisfazione istintuale e la relazione affettiva è un derivato secondario. Secondo le teorie del secondo gruppo, il rapporto interpersonale è una esigenza primaria.

La psicoanalisi contemporanea è sempre più influenzata dalla cosiddetta "teoria delle relazioni oggettuali", dove si considera il ruolo dell'ambiente e dello sviluppo delle prime relazioni interpersonali. A tale riguardo, infatti, è importante sottolineare come sia stato possibile stabilire l’importante analogia del rapporto terapeutico con il legame genitoriale (madre – bambino) introdotto dagli studi di Winnicott (1969), favorendo sempre più, tra l’altro, una disamina del concetto di transfert.

Da fenomeno attivato endopsichicamente , in cui si riconosce una sorta di distorsione della realtà “oggettiva” dell’analista, si è passati ad un transfert considerato come processo di ri-organizzazione dell’esperienza attuale condotta dal paziente secondo i suoi modelli interni (Di Sauro, Pennella, 2005).

La prospettiva relazionale

L’epistemologia “relazionale”, in quanto termine psicodinamico e psicoanalitico, deriva dall’espressione “object relations”, usato per la prima volta, nel 1925, da M. Klein nell’assunto di “relazione con le altre persone”.

Freud, invece, precedentemente aveva usato il concetto nella sola accezione di “meta della pulsione”.

A partire dal 1932 la Klein (1970), come noto, aveva iniziato a sviluppare la nozione di oggetti interni in relazione tra loro e quella di “fantasia” come luogo di immagini, basate sull’evoluzione filogenetica dell’individuo, costituita in “oggetti interni buoni e cattivi”.

In seguito, la Klein diede una svolta al suo lavoro introducendo nella sua teoria il concetto di posizione, d’interazione e di oggetto totale e parziale, che portò all’importanza sempre maggiore del ruolo esercitato dalle relazioni d’oggetto (Greenberg, Mitchell, 1983).

Già negli anni venti, tuttavia, Ferenczi aveva espresso dei dubbi sulla tecnica psicoanalitica, in particolare nei confronti della neutralità dell’analista. In tal senso, infatti, egli riteneva che si dovesse dare molta più importanza all’esperienza del paziente. Per sottolineare quanto l’analisi dovesse focalizzarsi sui dettagli concreti e non sulla teoria formale, sostenne il valore dell’“esperienziale” e dell’“affettivo”.

Nel 1925 suggerì che gli analisti dovessero abbandonare un atteggiamento di analista-specchio, costituito sulla neutralità dello stesso, per aprirsi ad un rapporto sicuramente più attivo (Ferenczi, 2002).

Inoltre, egli, insieme con Rank, sostenne che l’analista dovesse interpretare tutto il materiale del paziente alla luce del qui ed ora della relazione analitica.

D’altro canto, Fairbairn (1952), sin dal 1940, aveva cominciato a formulare la sua teoria delle relazioni oggettuali che consisteva fondamentalmente nello spostamento dalla teoria pulsionale freudiana verso un approccio decisamente più relazionale. Usando un’altra terminologia, le strutture endopsichiche, come egli apostrofava il mondo interno, non erano più basate sulla fantasia innata, ma venivano considerate come derivate totalmente dalle relazioni reali del bambino con i caregiver.

La conseguenza naturale fu che la teoria pulsionale freudiana risultò, a quel punto, modificata: la libido, perciò, acquistava il significato di “ricerca d’oggetto” e non di “piacere”.

Per Fairbairn (1952), l’Io libidico è alla ricerca di un contatto emotivo/affettivo che è presente già alla nascita, mentre l’Io antilibidico si sviluppa per una cronica indisponibilità emotiva della madre. Il conflitto tra questi due aspetti, dunque, costringe il bambino ad operare una scissione tramite una funzione definita “Io realtà”.

Winnicott (1969), invece, sviluppa la teoria della relazione d'oggetto, implicita nella concezione kleiniana, con la formulazione del concetto di “oggetto” e “fenomeni transizionali”, trovando così la possibilità di muoversi in un'area che tenga conto sia della pulsionalità dell'Io che del contributo dell'oggetto.

Secondo l’autore, infatti, grazie alla sua “capacità relazionale”, la madre (concetto di madre sufficientemente buona), crea un'illusione di onnipotenza attraverso la “presentazione dell'oggetto”, ovvero offrendo al bambino l'oggetto desiderato quasi ad anticipare il bisogno, lasciandogli l'illusione di essere stato lui stesso, con l'onnipotenza del suo pensiero, a crearlo.

In seguito, il bambino, con una graduale disillusione conquisterà l'oggetto, attraverso il suo uso, che è il poi primo possesso “non–me”, attraverso il quale il bambino potrà ritrovare sia se stesso sia l’esperienza della madre. È propriamente in questo oggetto intermedio (oggetto transizionale) che ritroviamo la soggettività, così come il legame con l'oggetto stesso.

Gli affetti rappresentano, quindi, un codice di segnalazione emotiva e permettono lo stabilirsi e la regolazione del coinvolgimento interpersonale. Winnicott (1956), con i concetti di “holding” (contenimento), “handling” (maneggiare) e “preoccupazione materna primaria”, ha sottolineato come l'esperienza del toccare e dell'essere toccati, che avviene all'interno della relazione madre-bambino, sia fondamentale per la costruzione e lo sviluppo di un Sé coeso. Tale impostazione teorica, arricchita dai concetti di “Falso Sé” e “Vero Sé”, sembra dunque qualitativamente ampliare quella di Fairbairn, che proponeva la psicopatologia come la scissione di un Io primario unificato e coeso che ha però bisogno di un oggetto gratificante e di una situazione ambientale favorevole. Da quanto propone Winnicott, non è la soddisfazione istintuale che fa si che il bambino cominci ad essere e a sentire che la vita è reale e degna di essere vissuta. Infatti, affinché questo succeda, è necessaria una holding (azione di contenimento) che gli permetta di esperire un ambiente affidabile, fonte di quel senso di Sè progressivamente emergente che si manifesta come sentimento di essere vivi, d’integrazione e di personalizzazione. Ma se le situazioni esterne non sono favorevoli, il bambino percepirà ogni esperienza come interferenza o sopruso. Di fronte a questo vissuto sarà costretto, allora, a costruirsi un falso Sè necessario a proteggere il Sè vero dallo sfruttamento e dall’annientamento.

La madre ricopre il ruolo di intermediario con la realtà esterna; l’area del gioco e dell’oggetto transizionale renderanno possibile la separazione e il ritirarsi in se stesso.

Le varie contrapposizioni teoriche nell’ambito psicoanalitico britannico e nordamericano diedero vita, dunque, ad una differenziazione di indirizzi analitici: lo sviluppo della psicologia dell’Io, guidato da Anna Freud ed attualmente definito dei “freudiani contemporanei”; l’indirizzo kleiniano, guidato da M. Klein e quello del “middle group”, attualmente riconosciuto come gruppo degli “indipendenti”, ispirato alle posizioni teoriche di Fairbairn, (1954) Balint (1983) e Winnicott (1958, 1965).

L’indirizzo della psicologia dell’Io si focalizzò su livelli successivi di sviluppo centrati su conflitti inter-strutturali, sulla centralità della situazione edipica, e sull’analisi dei conflitti inconsci. Allo stesso tempo rappresentati dalle configurazioni di impulso/difesa, con focalizzazione sulle strutture difensive dell’Io. Alcuni analisti in Gran Bretagna (J. Sandler, 1987) e alcuni americani all’interno della psicologia dell’Io cominciarono a far entrare nelle loro formulazioni teoriche e nei loro interventi tecnici la prospettiva delle relazioni oggettuali.

Modell (1990), ad esempio, influenzato da Winnicott, introduceva un indirizzo relazionale oggettuale; altri autori che si occupavano di pazienti gravemente regrediti e di patologie borderline, quali la Jacobson (1971), Kernberg (1976, 1984, 1992), e Searles (1979) introducevano un indirizzo relazionale oggettuale centrato sulle conseguenze delle internalizzazioni precoci, per le difese e le relazioni oggettuali primarie, focalizzate sulle implicazioni cliniche dei meccanismi di scissione e di identificazione proiettiva che comprendeva concetti e indirizzi, nella tecnica, derivati dalla scuola kleiniana e dei britannici indipendenti. Nel tentativo di integrazione del modello strutturale con quello delle relazioni oggettuali, Kernberg ha collegato l’approccio tecnico derivante da un’analisi sistematica delle difese caratteriali della psicologia dell’Io, nella diagnosi e nel trattamento dei pazienti borderline e narcisistici, con i concetti di difesa primitiva e di relazioni d’oggetto interiorizzate derivati dalle teorie americane e inglesi sulle relazioni oggettuali. Questa teoria ha avuto anche una grande importanza nello sviluppo della comprensione psicoanalitica delle dinamiche della coppia, dei gruppi regrediti, delle organizzazioni e delle psicosi.

L’indirizzo della tradizione kleiniana, focalizzato all’esplorazione delle relazioni oggettuali primarie e dei meccanismi di difesa primari e ai livelli più precoci dello sviluppo pre–edipico, sosteneva, come tecnica, una analisi precoce e massiccia degli sviluppi del transfert; l’esplorazione della diffusione nel transfert del mondo inconscio di relazioni oggettuali internalizzate; i collegamenti di tali transfert con fantasie primitive riguardanti aspetti corporei e l’interno del corpo della madre.

All’interno della scuola kleiniana, Rosenfeld (1987) sviluppa l’analisi della personalità narcisistica, applicando i concetti di “Invidia e Gratitudine” della Klein ad una particolare patologia del carattere resistente alla tecnica classica. In tal senso, egli introduce, nella tecnica kleiniana, il concetto di analisi del carattere. Lo sviluppo di questa impostazione amplia, così, l’approccio kleiniano dell’organizzazione di personalità patologica ed introduce il focus sull’analisi del “qui ed ora” delle resistenze caratteriali. Una tale prospettiva sembra, dunque, allargare anche l’attenzione del concetto di identificazione proiettiva.

D’altro canto, gli indipendenti britannici del “middle group”, erano in una posizione intermedia tra la psicologia dell’Io e l’approccio kleiniano. Essi sostennero i contributi kleiniani per la comprensione delle relazioni d’oggetto e delle difese primitive ed in particolare dell’identificazione proiettiva, ma anche a livelli più avanzati di sviluppo. Diedero, infatti, importanza agli stadi pre–edipici e alla centralità dell’analisi del controtransfert.

Fu evidenziata l’analisi del transfert tenendo conto sia dell’analisi dei fenomeni transizionali e del vero e falso Sé su contributo di Winnicott, sia l’analisi delle relazioni con gli oggetti interni cattivi portata avanti da Fairbairn.

Volgendo lo sguardo nel panorama culturale d’oltre oceano, negli Stati Uniti, all'interno dell'ortodossia freudiana, fu fondata da Heinz Kohut la Psicologia del Sé, la quale, anche se formalmente rimaneva all'interno delle organizzazioni freudiane, rappresentava poi di fatto una scuola relazionale.

Kohut (1971, 1977, 1979) ha dunque sviluppato l’aspetto clinico del modello relazionale.

Per lui il Sé si sviluppa a partire da alcune relazioni chiave, che egli definisce relazioni di Oggetto-Sé, nelle quali i genitori hanno la funzione di rendere possibili le relazioni “narcisistiche”. Per questo, nella cura terapeutica, i fattori relazionali sono primari: il paziente è sostenuto ad utilizzare l’analista come oggetto-Sé per supplire alla sua mancanza.

Secondo Kohut, infatti, le relazioni con gli altri e il ruolo che esse svolgono costituiscono il contesto primario dell’esperienza umana. La psicologia del Sé di Kouht (1971, 1977, 1984) ha consentito importanti implicazioni per la tecnica analitica dove viene centralizzata la relazione nel qui ed ora e l’empatia con l’analista.

Partendo dalla psicologia dell’Io, Gill ed Hoffman (Gill 1994) ampliarono ed arricchirono il concetto di situazione analitica. Gill descrive l’importanza del transfert come risultato dell’interazione tra paziente e analista e quindi della continua necessità di autoanalisi da parte dell’analista. A tale proposito, l’autore riconosce sempre l’importanza nel transfert recuperato dal passato, ma evidenzia la necessità di tenere in considerazione le relazioni attuali reali tra analista e paziente.

Gill, infatti, rispetto al transfert, sottolinea che esso “è sempre un impasto di passato e presente ed è basato sulla risposta all’immediatezza della situazione analitica più plausibile che il paziente possa mettere insieme” (1982, p.177).

Tutto ciò comporta un passaggio alla posizione secondo la quale l’analista è inevitabilmente un osservatore partecipe, in una relazione o campo bipersonale, dove il transfert è il risultato dell’interazione tra paziente e analista.

Un tale approccio costruttivistico del transfert, in seguito, è stato sviluppato da autori quali Atwood e Stolorow (1984) che, di fatto, si pone in contrasto con quello oggettivistico della maggior parte degli psicologi dell’Io americani e degli indirizzi britannici. Tutti gli orientamenti interpersonalisti e post–interpersonalisti, quindi, riconoscono la presenza del terapeuta come attivamente interagente con il paziente, differenziandosi da quelli che lo vedono maggiormente come "osservatore che anche partecipa".

Anche Autori come Sullivan, Fromm, la Horney, la Thompson, la Fromm‑Reichmann ecc., possono essere ascritti a “pionieri” della prospettiva relazionale. Essi, attorno alla metà del secolo, erano stati superficialmente liquidati come "revisionisti" per aver abbandonato il dogma della teoria delle pulsioni in favore dell'influenza dell'ambiente (Migone, 1994, XVI, 60 61-74). Negli Stati Uniti, ad esempio, Sullivan aveva cominciato a sviluppare l’approccio “interpersonale” in relazione alla psichiatria.

Sullivan e la sua scuola formulavano i concetti di “campo interpersonale” e di “osservazione partecipe”, secondo i quali l’osservazione è possibile solo all’interno di una relazione interpersonale che crea, appunto, un campo al quale il terapista non può pensare di rimanere esterno.

Con Sullivan si riunirono, inizialmente, Karen Horney e Erich Fromm. E fu questo il gruppo al quale si è dato tradizionalmente il nome di gruppo“neofreudiano”. Una menzione a parte la merita E. H. Erikson (1968, 1974, 1999). Il costrutto teorico di questo autore, pur partendo dalla teoria freudiana, prende in considerazione l’articolazione dell’Io in relazione all’ambiente sociale.

Infatti, l’evoluzione stadiale di Erikson non sottolinea la dimensione sessuale dell’individuo, invece così determinante nella teoria freudiana. Per Erikson la personalità del soggetto si struttura per tutto l’arco di vita dello stesso, anziché stabilirsi psichicamente intorno ai 5/6 anni come descritto dalla teoria freudiana. Erikson considera l’evoluzione del soggetto essenzialmente, come una crescita di “Identità” ed in quanto tale come uno sviluppo nell’ambito della affettività.

Di conseguenza, il senso di identità e la relativa maturità affettiva della persona evolve, durante tutto il ciclo vitale, pur essendo condizionata sia da fattori interni (costituzionali) che esterni (socio-ambientali ). La maturità del soggetto si dispiega attraverso il superamento di otto stadi, in ognuno dei quali deve emergere ed affermarsi una particolare caratteristica dell’Io affinchè il senso di identità della persona possa evolversi appropriatamente. Ad ogni stadio, secondo l’Autore, si delinea una crisi, che prende le sembianze di un conflitto tra due qualità dell’Io che sono alternative e opposte, una sicuramente più funzionale, l’altra disfunsionale allo sviluppo dell’individuo. Ovviamente, se l’elaborazione della crisi è positiva si evidenzieranno le caratteristiche di uno sviluppo normale, al contrario, se emerge la posizione negativa, questa condizionerà fortemente il senso di identità matura del soggetto.

In seguito, negli ultimi anni, la scuola interpersonale ha dato luogo alla scuola relazionale, rappresentata essenzialmente oggi da Greenberg e Mitchell.

Tuttavia, come già visto in precedenza, alla fine degli anni trenta Sullivan insegnava che l’interazione umana deve essere considerata come una condizione originaria e che ogni membro della relazione non è una entità separata ma è coinvolto, come parte di un campo interpersonale, in processi che sono influenzati dal campo stesso e che influenzano a loro volta il campo.

Tali idee, quindi, nascevano in una cultura psicologica più vasta, influenzata da autori quali Kurt Lewin, il creatore della “teoria del Campo” in psicologia.

Il comportamento, infatti, per Lewin, è “una funzione dello spazio di vita, e lo spazio di vita è il risultato della interazione tra le persone e il suo ambiente” (M. Deutsch, 1968, cit. in Miller e Buckhout, 1975, II vol., pag. 139).

Il concetto di “campo psicodinamico”, mutuato da quello di “campo” di Lewin, contiene, tuttavia, al suo interno, parecchi significati che si sono andati stratificando in un modello complesso, “aperto” e tuttora in progresso.

Il pensiero, infatti, fu introdotto negli anni sessanta dai coniugi Baranger, i quali misero in evidenza che la situazione analitica non poteva essere compresa se non come processo dinamico che coinvolge entrambi i membri della relazione.

Per studiare la situazione analitica, così concepita, i Baranger usarono il concetto di “campo”. La loro ipotesi di base era che la coppia paziente–terapeuta genera un campo ed è compresa nel campo che essa stessa genera.

Questo è dotato di una propria struttura spazio-temporale, orientato secondo particolari linee di forza e determinate dinamiche e regolato da proprie leggi e obiettivi di sviluppo.

I Baranger ne individuarono tre livelli di strutturazione: il setting, la relazione manifesta e le fantasie inconsce bipersonali paziente-analista. Quest’ultime, costituite da un gioco incrociato di identificazioni proiettive, rappresentano la struttura latente del campo e la loro analisi costituisce lo specifico dell'esperienza analitica.

In questo modo, il campo stesso diventa “l'oggetto immediato e specifico” dell'osservazione analitica e si può parlare solo di una patologia del campo, in quanto la patologia del paziente entra nella relazione solo in rapporto alla persona dell'analista, il quale, in quanto membro della coppia, contribuisce a generare il campo e ne è pur sempre coinvolto . Il concetto di fantasia inconscia della coppia appare in stretta risonanza con il concetto di identificazione proiettiva. Entrambi i costrutti ammettono, infatti, un coinvolgimento emozionale reciproco e un reciproco scambio di emozioni primitive, implicando così la formazione di uno spazio “terzo” tra soggetto e oggetto, e quindi di un campo comune di energie emotive (Ogden, 1992).

Possiamo quindi affermare che una prima, essenziale nozione di Campo si apra, in psicoanalisi, a partire dal concetto di fantasia inconscia bipersonale dei coniugi Baranger e dallo sviluppo bioniano dell'identificazione proiettiva.

Questo concetto di Campo sembra tuttavia restare entro i confini di una dimensione “intersoggettiva” e “relazionale” in cui l'identificazione proiettiva funge da meccanismo di base della formazione del campo che quindi si intinge di energie emotive capaci di imprimere ai legami affettivi presenti, turbolenze e curvature complesse e imprevedibili. In questo senso, il Campo appare come una configurazione gestaltica di una situazione, che seppur strutturata dal setting e dalle fantasie inconsce, resta ancorata all'incontro e alle reciproche esperienze emozionali tra i partecipanti e si individua come luogo perturbato, soggetto ad intense variazioni di energia.

Il cambiamento del paradigma psicoanalitico per eccellenza (la teoria delle pulsioni), ovviamente, ha contribuito in un certo qual senso ad evidenziare i risultati della ricerca sperimentale in ambito infantile (Stern, Emde, Lichtenberg, Greenspan ecc.).

Da queste ricerche, con il passar del tempo, si è sempre più sottolineato, con chiarezza, la crisi del modello pulsionale freudiano, sia verso la critica alla teoria duale delle pulsioni (libido e aggressività), che oggi vengono osservate e studiate come spinte motivazionali a multilivelli, sia nel senso del concetto di pulsione, non più vista come scarica di tensione ma, come sostenuto da Fairbairn, in virtù della ricerca dell'oggetto.

Tuttavia, nonostante questo enorme cambiamento di prospettiva, bisogna riconoscere, per altri versi, come in questi ultimi tempi si stia accendendo il dibattito sulla sostanziale efficacia della rilevanza delle ricerche infantili sulla psicoanalisi (Bonaminio, Fabozzi, 2005).

La ricerca infantile contemporanea deve molto ai lavori pionieristici di Bowlby (1958, 1969) sulla teoria dell'attaccamento, così fertili da stimolare un intero filone di ricerche, nonché alla dimostrazione sperimentale del contact comfort da parte di Harlow (1958), decisiva per dimostrare l'esistenza separata di pulsioni diverse da quelle che si credevano “primarie” (Migone, Gli Argonauti, 1994, XVI, 60: 61‑74).

Fu Bowlby (1969, 1973, 1980) a dare fondamenta proprie ad un uso teorico delle relazioni umane. Bowlby, come Freud, privilegiava spiegazioni che avessero radici nella biologia e per questo attinse molto dalla teoria darwiniana. Per lui, infatti, la sopravvivenza del bambino non dipende tanto dalle esigenze fisiche come la nutrizione, la regolazione della temperatura ecc., accentuate da Freud, quanto dal “bisogno della madre”, ossia dalla prossimità, attenzione e presenza di chi si prende cura di lui: l’“attaccamento” diventa, invece che la pulsione, la motivazione alla base del comportamento.

Le evidenze empiriche più rilevanti, a verifica del modello relazionale, sono rappresentate dai risultati dell’Infant Research, che testimoniano l’esistenza di un neonato e un bambino attivo e sensibile, fin dall’inizio, nello stabilire relazioni con l’ambiente esterno e capace di regolare autonomamente l’eccitamento e il coinvolgimento (Lachmann, 2002; Stern, 2004, 2005).

In tal senso, infatti, si pensa che il neonato non diventa sociale solo tramite l’apprendimento o il condizionamento, ma grazie ad un adattamento alla realtà. La relazione non è un mezzo teso a qualche altro scopo, riduzione della tensione, piacere o sicurezza; la natura stessa del neonato lo spinge verso la relazione. Nel percorso che conduce alla prospettiva intersoggettiva, quindi, sono confluite posizioni aventi origine da varie correnti di pensiero e ricerca della psicoanalisi, a partire, come descritto, dalle teorie interpersonali e delle relazioni oggettuali, dalla Psicologia del Sé e dai tentativi di integrare Infant Research e psicoanalisi.

Il terreno comune implica il riconoscere la mente come intrinsecamente diadica, interazionale, interpersonale, sociale (Siegel, 2001) e di conseguenza bisogna riconoscere una visione del rapporto terapeutico coerente con tale concezione.

Una nuova prospettiva: ovvero la revisione del corpo in psicoanalisi.

Dalle riflessioni espresse in precedenza, possiamo ricavarne che il ruolo del corpo nella psicoanalisi attuale sta prendendo sempre più forma, sia negli aspetti metapsicologici secondo una chiave di lettura intersoggettiva, sia perché il famoso assunto di base di Freud che “l’Io è prima di tutto entità corporea” sta acquisendo una maggiore pregnanza nelle relazioni terapeutiche.

In altri termini, sempre più si riconosce alla funzione dell’implicito o del non verbale, un ruolo importante all’interno delle psicoterapie orientate psicodinamicamente, dove vi si dispiega uno degli aspetti più importanti e decisivi rispetto al cambiamento(Stern, 1985, 2004, 2005; Gabbard, 2005; Aron, Sommer Anderson, 2004; Aron, 2005).

Molti autori (Dimen, 2005; Harris, 2005) stanno mettendo in forte evidenza come il corpo in psicoanalisi stia subendo dei cambiamenti. Una volta, come sottolinea Dimen (2004, pag. 123): “era reale, concreto, finito, contrassegnato da zone erogene eccitabili ma contenibili.

Negli ultimi tempi, invece, esso sembra a malapena essere corporeo o avere addirittura un senso.”

Si sta definendo in un certo qual modo una nuova epistemologia dei corpi in relazione, all’interno della diade terapeutica.

Se in una qualche accezione la psicoanalisi è una teoria dell’integrazione fra corpo e mente, essa non può prescindere, quindi, dall’ analisi delle relazioni psicocorporee, siano esse elaborate a livello micro che a livello macro della relazione stessa.

Del resto, visto il viraggio teorico dalla prospettiva monadica ad una bipersonale non potevamo non arrivare a questo. In altri termini si sta ribadendo il concetto che un terapeuta che operi con un approccio relazionale non può prescindere dalla verifica che la riflessione sull’integrazione corpo–mente comporta.

Se l’inconscio viene ora visto in termini relazionali, “i discorsi” che si svolgono all’interno della situazione psicoterapica non possono prescindere da una ricomposizione somatopsichica. Si noti come fra somato e psichico non si è messo alcun trattino. Il tentativo è quello di definire, una volta per tutte, l’integrazione umana della persona.

Non più dunque un corpo ed una mente ma una persona che evolve nel suo divenire, sia esso storico che, inevitabilmente, esistenziale. La prospettiva relazionale può sicuramente essere arricchita da un incontro che tenga presente sia la riflessione filosofica del dopo Cartesio, sia, soprattutto, le concezioni teoriche che prendono in considerazione i processi corporei inscindibili dalle fantasie, dalle interazioni e dai significati stessi dell’interazione. Quest’ultimo assunto richiama il ruolo dell’interpretazione che forse qualche Autore di impostazione relazionale vorrebbe escludere dalla pratica clinica, ma tale tentativo si rende impossibile quanto inutile, in quanto attueremmo ancora una volta una dicotomia fra processo e pensiero, fra corpo e mente. Il fatto di avere un corpo oggetto–vissuto non vuol dire che esso è escluso dalla soggettività pensata – quindi interpretata – dall’individuo o dagli individui nel campo relazionale.

Come molti autori sottolineano, la decodificazione di dinamismi, come l’identificazione proiettiva, si snoda come punto di fondamentale importanza nel procedere della terapia. E i clinici sanno bene, sulla loro “pelle”, che i fenomeni che spesso sottindendono tale meccanismo sono sempre di natura corporea, o psicocorporea dovremmo meglio, dire, di: sensazioni sgradevoli, noia, attività cinestesiche, movimento e piccole prassie, torpore, sonno, ecc.

Il concetto di mimesi

Adrienne Harris (2005) postula un concetto interessante applicabile al discorso che si sta affrontando, quello di mimesi.

La mimesi nasce, come termine, all’interno del mondo teatrale e si sviluppa come capacità dell’attore di vivere i sentimenti che, allo stesso tempo, sono le emozioni che il pubblico prova.

Le identificazioni mimetiche, dice la Harris (2005, pag. 96) “sono quindi punti di trasferimento di stati affettivi. Sebbene siano coinvolte delle azioni fisiche, la mimesi non è imitazione in senso comportamentale ma è un incontro imitativo e responsivo con un altro essere umano che può condurre ad esperienze affettive indotte mutuamente.” Non è forse vero, ci possiamo domandare, che lo sviluppo dell’Io corporeo comporta una forma elementare di imitazione? La mimesi, di conseguenza, assume un ruolo importante nella formazione dell’Io corporeo.

Del resto, il ruolo delle neuroscienze, al riguardo, è ormai estremamente significativo. La scoperta, infatti, dei “mirror neurons” (neuroni specchio) ha contribuito in maniera determinante allo studio sulla conoscenza umana, e sulle capacità dell’individuo di interagire anche con schemi di imitazione con le persone intorno a lui. Si pensa che le attività dei neuroni specchio siano fondamentali nel comprendere ciò che l’altro agisce in virtù del fatto che gli stessi neuroni siano risonanti all’interno del soggetto osservante. Sembra che tali attività partono dal sistema senso–motorio e dalla costruzione dell’intelligenza nell’essere umano (Piaget).

D’altro canto, chi si occupa di bambini sa, per sua esperienza personale, quanto il “dialogo tonico” (Aucouturier, Lapierrre, 1987; Di Sauro, 1999) sia il mezzo comunicativo per eccellenza nella relazione con i piccoli, e, sicuramente, per trasposizione, anche con i pazienti il cui linguaggio simbolico e verbale può essere particolarmente compromesso, come nel caso di pazienti psicotici, borderline, ecc.

Questi concetti, tuttavia, già Merleau-Ponty li affrontava ragionando sul fatto che l’attività umana è intimamente connessa nell’esperienza corporea, in cui lo stesso corpo recepisce costantemente la presenza del corpo altrui.

Il discorso è troppo importante per definirlo in poche righe, anche in virtù del fatto che a queste riflessioni dovremmo aggiungerne altre di tipo metodologico rispetto, per esempio, alla formazione del futuro psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico. Non è possibile farlo adesso, anche se alcune indicazioni le riprenderemo più in là, quando si affronterà il tema del processo di cambiamento e della formazione, ma soprattutto nel capitolo successivo, discutendo dell’ epistemologia del corpo in psicoanalisi.

Il cambiamento

Dopo aver ripercorso alcune tra le più importanti tappe teoriche che hanno contribuito ad affermare nel tempo la psicoanalisi, possiamo, ora, addentrarci meglio nella teoria del cambiamento e dell’agire terapeutico.

Cambiamento, secondo il Vocabolario Zingarelli (2001), significa “mutamento”, “trasformazione”.

La parola cambiamento è la derivazione, insieme a scambiare, ricambiare ecc., del verbo latino campsàre, nel senso di “mutare”, “curvare”, “girare intorno”.

Come facilmente immaginabile: “il problema del cambiamento è un contenuto essenziale della realtà a livello tanto storico, quanto antropologico, sociale , psicologico” (Foglio Bonda, 1991) e, in particolar modo, per quello che ci riguarda in questa sede, psicoterapeutico. Pertanto, tentare di definire il cambiamento all’interno dei paradigmi psicoanalitici è questione assai ardua e, fondamentalmente, costituisce un dibattito continuo, visto che la questione coinvolge gli spinosi interrogativi sia degli obiettivi terapeutici sia della verificabilità scientifica degli stessi. Al riguardo, infatti, sono molteplici le possibilità interpretative sull’argomento tanto che, la Turillazzi Manfredi (1994), in apertura di un suo lavoro, si chiede se la psicoanalisi in realtà sia una teoria del cambiamento o se, al contrario, sia una teoria degli ostacoli che si oppongono al cambiamento.

Infatti, è largamente diffusa l’idea che il cambiamento sia strettamente correlato con la figura dell’analista e soprattutto con le teorie psicoanalitiche che lo stesso avrà sposato. In altri termini, il cambiamento, sempre secondo la visione della Turillazzi Manfredi (1994), “è il cambiamento del comportamento, che viene assoggettato soprattutto dal concetto di riparazione”. Ed è in questo senso, secondo l’autrice, che il concetto clinico di “riparazione” diventa più facilmente controllabile e verificabile. Ad onor del vero bisogna dire che la stessa Turillazzi pone il problema che il concetto di riparazione, pur essendo estremamente creativo, è però inserito all’interno di un pensiero teorico ben preciso, quello kleiniano, e, di conseguenza, bisognerà domandarsi se lo stesso concetto potrà sopravvivere alle innovazioni teoriche e cliniche.

Obbligatoriamente, però, si deve lasciare da parte questo tipo di discorso in quanto dovremmo affrontare, una per una, tutte le argomentazioni legate, da una parte, alle visioni teoriche di ogni psicoterapeuta e, dall’altra, alla visione filosofica della vita, acuita specialmente dalle proprie esperienze personali: improponibile. E’ interessante, tuttavia, pur dando per scontato, e lasciando comunque, sempre “aperte” le questioni appena sollevate, che si rifletta insieme su alcuni concetti correlati al cambiamento stesso. Tali concetti, almeno si spera, possono essere utili sia nel tentativo di definire il nostro agire terapeutico, sia nella comprensione dei mutamenti che, non a caso, si sono verificati nell’ambito della psicoanalisi dalla sua nascita ad oggi e che all’agire terapeutico sono strettamente connessi. Possiamo argomentare questi concetti prendendoli a “prestito” da un vecchio lavoro di Foglio Bonda (1991), ma soprattutto esprimendoli un po’ alla sua maniera, in quanto, spesso, nella vita di tutti i giorni, come nella psicoterapia psicoanalitica, può essere più proficuo porsi domande che aspettarsi risposte che risulterebbero obsolete e sicuramente riduttive.

Alcuni interrogativi, allora, sulla parola cambiamento. In tal senso, Foglio Bonda (op.cit.), per esempio, ha innanzitutto esaminato la definizione di tale termine per poi successivamente domandarsi se il concetto stesso poteva essere comparato, in qualche modo, al concetto di psicoterapia. Egli in tal senso scriveva: “É possibile il cambiamento in relazione alla psicoterapia?Cosa significa cambiamento? Del sintomo? Della perdita? (salute, serenità, equilibrio ecc.) Esso comporta: Una crescita? Solo il superamento di problemi o può essere una espansione della soggettività dell’individuo?”.

Ed ancora, lo stesso Autore, ha tentato di contestualizzare il concetto di cambiamento ponendo l’interrogativo se esso possa dipendere da esperienze personali del terapeuta o dalla cultura di quest’ultimo; se esso possa riferirsi a livelli cognitivi e/o emotivi ed infine ponendo l’attenzione sulle rappresentazioni mentali e sui livelli di motivazione interni ed esterni da cui il concetto di cambiamento può derivare.

Quanto la definizione del concetto di cambiamento dipende dalle credenze del terapeuta o dalla sua cultura dominante?

Quali sono gli ambiti del cambiamento? Lo sono a livello cognitivo? O a livello dei vissuti affettivi ed emotivi?

L’esperienza del cambiamento implica la maturazione di atteggiamenti inizialmente distruttivi a costruttivi? Oppure si evidenzia a livello di condotte interpersonali e/o sociali delle attività, per es. il passaggio dalla fuga all’autoaffermazione; dalla instabilità alla coerenza ecc.? I livelli del cambiamento come possono essere?: intenzionali o spontanei? consapevoli o inconsapevoli?superficiali o profondi?. Si può essere d’accordo sul fatto che il cambiamento in psicoanalisi presuppone l’elaborazione di questi aspetti fondamentali?:

A) sia a livello dei concetti primari della psicoanalisi, e cioè genetico, evolutivo, dinamico, strutturale, ovvero nel passaggio dalla compulsione al controllo delle pulsioni, dal predominio dei bisogni e quello dei valori, dalla rigidità alla flessibilità, dalla incoerenza alla logica ecc.;

B) sia alle caratteristiche che il cambiamento terapeutico venga considerato come una serie di energie complementarie e di integrazione, vedi ad es. gli aspetti essenziali del pensiero moderno, che sono: evoluzione, relatività, complessità, o ipercomplessità, (Green, 2005) e provvisorietà.

Da questa serie di domande e dalle seguenti riflessioni, che saranno inevitabilmente dense di significati teorici e clinici, proviamo, ora, ad addentrarci a riflettere in maniera un pò più organizzata rispetto a ciò che può essere definibile cambiamento in psicoterapia psicoanalitica.

Tuttavia, prima di procedere nella riflessione sui cambiamenti specifici della psicoterapia psicoanalitica, diamo un’occhiata veloce a cosa si intende per cambiamento terapeutico, nell’ambito della psicoterapia in generale.

Esso è stato identificato, nel corso degli anni, rispettivamente come:

* ― Effetto della rimozione, delle rimozioni non riuscite che permette l’affiorare delle pulsioni inconsce che, a seconda dei casi, saranno indirizzate o meno verso le giuste mete o sublimate. (ud, 1937).

* ― Processo di autorealizzazione determinato da “uno stato di tensione che spinge l’organismo a realizzare se stesso in ulteriori attività, secondo la sua natura” (Goldstein , 1939).

* ―Risultato dell’incontro tra “la spinta alla trasformazione e quella che alla trasformazione resiste” (Lewin, 1936).

* ― “Evoluzione” interiore e profonda nella struttura personale dell’individuo verso quello stadio che i clinici definiscono di “maggiore integrazione” (C. R. Rogers, 1976).

* ― Risultato di una interazione (H. L. Lennard e A. Bernstein, 1960) e quindi non più come una modificazione esclusivamente dell’individuo ma, piuttosto, come un particolare modello di relazione che “non venga più reificato, ma piuttosto studiato nel contesto interpersonale in cui si attua” (P.Watzlawick, 1967).

* ― Frutto di un processo relazionale, che pone a confronto la motivazione del paziente e la posizione del terapeuta (Scilligo, 2000).

* ― Raggiungimento dei cambiamenti di vita desiderati dal paziente (O. Renik, 2004).

Agire terapeutico e cambiamento in psicoterapia psicoanalitica

Dalla lettura dei paragrafi precedenti possiamo dunque dedurre che una sostanziale conseguenza di questo globale cambiamento di prospettiva analitica consiste nel nuovo modo di considerare il ruolo dell’analista: non più in una posizione oggettivistica di fronte al transfert del paziente, ma la sua azione si esprime all’interno di un modello costruttivistico dell’esplorazione degli affetti nella situazione analitica.

Tale approccio diventa la base della comprensione nella relazione tra paziente e analista e l’assimilazione da parte del paziente di tali esperienze affettive viene considerata un fondamentale fattore terapeutico al fine del cambiamento. In tale accezione, “se da un lato è inevitabile riconoscere al transfert tanto una funzione adattiva quanto manipolatoria nei confronti della relazione, d’altro canto, si evoca però anche l’idea di un “modello” che l’individuo acquisisce grazie alle sue relazioni primarie con le figure di attaccamento, cosa che rinvia sia al concetto bowlbyano di “modello operativo interno” che all’idea di Stern di una rappresentazione delle interazioni assunte dall’individuo e da lui generalizzate. Nell’accezione moderna, il transfert assume necessariamente la funzionalità di un processo interattivo e basato inevitabilmente sui canoni espressivi della situazione in cui esso si sviluppa (Di Sauro, Pennella, 2005).

Cosa cambia in psicoanalisi

Come si è visto, in psicoanalisi non esiste accordo unanime su cosa cambia nella relazione terapeutica. Gabbard (2005), al riguardo, propone di assumere un atteggiamento che comporta una sorta di “umiltà scientifica” rispetto alla relazione clinica, in quanto il terapeuta certezze assolute non può averne; anzi, è proprio questa incertezza che determina il valore stesso dell’imprevedibilità della relazione così come quello delle ipotesi cliniche che all’interno della stessa vengono poste.

Il problema, semmai, diventa quello della verificabilità degli interventi.

Le neuroscienze, possono offrire il loro contributo scientifico nell’evidenziare alcuni dei processi e degli obiettivi del cambiamento.

La decodificazione dei messaggi del paziente che fondamentalmente esprime, attraverso la memoria implicita, che descrive il comportamento umano ma di cui la mente non è cosciente, può essere il punto centrale degli obiettivi che ci si propone al fine di “cambiare qualcosa”( Stern, 2005; Gabbard, 2005).

I nessi inconsci, che si esprimono attraverso la memoria associativa (che è un sottotipo di memoria implicita), riguardano, infatti, gli stessi nessi inconsci tra processi psicologici cognitivi e affettivi che si sono associati tramite l’esperienza.

Questi non sono del tutto raggiungibili e determinano di conseguenza, forse, l’obiettivo primario dell’agire terapeutico.

In sintesi possiamo descrivere questi processi considerando il seguente ordine:

* cambiare i nessi associativi inconsci;

* particolarmente quelli che scatenano reazioni emotive problematiche;

* quelli che scatenano strategie difensive problematiche;

* quelli che sottostanno a modelli interpersonali disfunzionali.

* In modo più esplicativo, potremmo soffermarci, come in un recente lavoro ha proposto Gabbard (2005), per esempio su:

* I collegamenti fra affetti e rappresentazioni: - es. un paziente può avere sentimenti di ripugnanza di sé associati con una rappresentazione di sé come cattivo, avido ecc.

* La modifica dei nessi inconsci che rappresentano i desideri inconsci.

* La modifica dei nessi che costituiscono i convincimenti patogeni inconsci, come ad es. accettare i cambiamenti positivi, cioè se il paziente si concede felicità o successo o se può esprimere la rabbia e così via.

* La modifica delle difese e la formazione dei compromessi.

In definitiva possiamo dire che aiutare il paziente a modificare le rigide relazioni d’oggetto interno significa occuparsi delle relazioni esterne dell’individuo, nella vita, fuori dell’analisi, le quali dopotutto, sono l’obiettivo fondamentale del cambiamento delle relazioni d’oggetto.

Le tecniche che favoriscono il cambiamento.

In realtà, tentare di chiarire quali tecniche adottare per favorire l’evoluzione del cambiamento non è cosa semplice, in quanto dovremmo ripercorrere in un qualche modo, i principi fondamentali della psicoanalisi, e forse, per inciso, anche affrontare il dibattito aperto una trentina di anni fa da Gill (1994) ed altri autori, sulla differenza con la psicoterapia psicoanalitica. Ovviamente non è questo capitolo la sede più opportuna per approfondire questo laborioso discorso, tuttavia in maniera molto semplificata, si cercherà di riflettere intorno ad alcuni concetti che riguardano le tecniche.

Le prime nozioni tecniche da considerare, anche in virtù di una loro pregnanza storica, sono l’insight e l’interpretazione: entrambe queste conoscenze, che hanno segnato lo sviluppo della psicoanalisi, si situano come pensieri cardini per affrontare il cambiamento.

Infatti, pur considerando un discorso logico la trasformazione dell’evoluzione psicoanalitica dalla sua fondazione sino ai nostri giorni, dobbiamo, tuttavia, riconoscere che sia l’insight che l’interpretazione hanno mutato il loro carattere specifico nel corso degli anni.

In tal senso, infatti, si è sempre più evidenziato l’aspetto dell’empatia, e, per dirla con Stern, del “now moment”, (Stern, 2005) nella relazione terapeutica, ponendo nello sfondo i concetti di cui sopra.

Tuttavia, essi non hanno perso la loro importanza ma semmai è stata potenziata dal fatto che sono inseriti all’interno di un processo relazionale nel quale si sviluppano.

L’interpretazione, infatti, è, secondo chi scrive, il naturale punto di vista di un individuo, sia esso paziente o terapeuta, con il quale la persona co‑costruisce le esperienze di vita.

In altri termini, l’interpretazione è una attribuzione di senso che però deve essere continuamente verificata con l’esperienza di vita e soprattutto con un’epistemologia clinica entro la quale esercitiamo il nostro lavoro; anche se, tuttavia, il valore attribuito all’interpretazione e all’insight sembra essere andato, con gli anni, diminuendo. In questa logica anche la libera associazione si rinnova, divenendo importante. La libera associazione, infatti, fornisce un modo di vedere le difese in azione e permette alla coppia terapeutica di rilevare i nessi impliciti.

Dal punto di vista attuale, ciò implica essenzialmente la modificazione dei nessi associativi, inclusi i desideri, le paure, le motivazioni e le strategie difensive che possono essere associativamente legate alle rappresentazioni di oggetti, situazioni o azioni. Un secondo modo per esercitare correttamente la tecnica, può essere quello di far interiorizzare le funzioni grazie alle quali il paziente sviluppa la capacità di svolgere una funzione fino a quel momento sconosciuta. Un terzo modo può riguardare l’interiorizzazione, o meglio, la consapevolezza degli atteggiamenti oggettivi del terapeuta. Vale a dire che bisogna che l’analista stia attento sia al super Io che alle idealizzazioni della persona in cura. Un quarto modo, invece, può considerare l’interiorizzazione di strategie consce di riflessioni su di sé, che gradualmente il paziente conosce come proprie. In questo senso è importante, per esempio, aiutare il paziente a superarsi attraverso il “problem solving” come per esempio descritto nel primo capitolo.

In altri termini, come propongono anche Fonagy e Target (2002), nel tentativo di distinguere fra credenze e fatti.

Questa distinzione aiuta il paziente nella ricerca delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto. Infine anche una moderata attitudine alla self disclosure può essere, come propone Gabbard (2004, 2005), una manovra tecnica da considerare.

Tuttavia la riflessione su questo concetto merita un maggiore approfondimento, proprio per la sua ricchezza che lascia aperte molte disamine sia in campo teorico, sia in campo clinico. Ad ogni modo, essa (la self disclosure) può essere indicata con i pazienti che hanno avuto relazioni incoerenti o imprevedibili. Una assennata self disclosure può promuovere, infatti, la mentalizzazione in quei pazienti che mancano della capacita autoriflessiva di sé.

Cambiamento e psicologia clinica

Come si è visto, il cambiamento è un’operazione all’interno della psicoanalisi argomentazione quanto mai difficile da affrontare anche in virtù delle molteplici visioni di osservare e vivere il rapporto psicoanalitico. In altri termini, bisogna considerare la matrice teorica e teorico-tecnica del terapeuta.

Sintetizzando in modo estremo, si può considerare un terapeuta che metta in evidenza sostanzialmente le modificazioni della relazione Es, Io, Super Io da un lato, o, d’altro canto, all’idea oggi più largamente diffusa e condivisa che un cambiamento è valido quando si percepisce nella relazione transfert – controtransfert (Turillazzi Manfredi, 1994).

Ci potremmo porre, arrivati a questo punto un’altra questione forse utile alla nostra riflessione, e cioè quanto il cambiamento possa essere messo in correlazione con la psicologia clinica e di conseguenza con i suoi processi metodologico – clinici. Ovviamente, la questione posta non è secondaria o relativa vista la propensione culturale dell’approccio clinico che la SIRPIDI ha nel suo statuto epistemologico e soprattutto nella sua programmazione didattica. In un recente lavoro (Di Sauro, 2002), e come espresso più volte anche nei capitoli precedenti, si mette in risalto il ruolo della psicologia clinica come la scienza che si occupa della comprensione e del miglioramento del funzionamento umano (Korchin, 1976). In altre parole, il fine di ogni intervento clinico, quindi, consiste inevitabilmente nel tentativo di aumentare sia il livello di benessere sia l’efficienza degli individui che soffrono di disturbi. In tal senso, questa definizione non è forse sovrapponibile con l’obiettivo del cambiamento in psicoterapia?

Se siamo consapevoli di questa associazione allora dovremo procedere nell’affrontare alcune riflessioni fondanti l’apporto metodologico della psicologia clinica al processo del cambiamento e alla verifica dei processi del cambiamento stesso.

La prima riflessione che viene in mente, dopo la lettura della proposta di Korchin, è l’assunto che nel momento in cui lo psicologo clinico non si limita ad effettuare una semplice valutazione psicodiagnostica, ma analizza la modalità con cui l’utente agisce la propria richiesta di intervento, di fatto già svolge una qualche azione terapeutica (Di Sauro, 2002). Costituendosi di fatto un continuum psicologia clinica–psicoterapia, esso ne evidenzia sia i processi di cambiamento, sia le modalità con la quale avvengono i cambiamenti.

Appare di fondamentale importanza individuare nel “tempo” della valutazione, come nella possibilità di stimolare nel paziente l’interiorizzare dei suoi disagi ma soprattutto di quelle “scene modello”, come le chiamerebbe Lichtenberg (1999), al fine di stabilire già nella fase iniziale del continuum psicologia clinica-psicoterapia, il modo ed i contenuti del cambiamento in psicoterapia (Gabbard, 2005).

Weiss e Sampson (1986), hanno proposto, in un loro studio presso il Moount Zion Hospital di San Francisco, una processualità clinica molto vicina alle argomentazioni che si stanno proponendo. Partendo dal concetto di motivazione relazionale, gli Autori ritengono che il paziente, in realtà, già dalle prime battute conoscitive fra lui ed il terapeuta, metta in atto, in base all’ipotesi di un funzionamento mentale inconscio, una selezione di esperienze cognitive, di memoria, di capacità di anticipare, di progettare ecc..

Forse egli esprime in maniera organizzata vari sistemi motivazionali o, in altri termini, una logica difensiva che cerca di adattarsi alle condizioni di sicurezza interna. Il paziente, cioè, cercherebbe di testare la relazione con il clinico, allo scopo “di verificare la fondatezza dei propri convincimenti angosciosi: se le sue aspettative patologiche saranno confermate dalla collusione controtransferale del clinico, avrà in lui il sopravvento di un atteggiamento che potremmo definire di “resistenza al cambiamento”; viceversa, se il clinico sarà in grado di sconfermare ripetutamente le attese ansiogene basate sulla credenza patogenetica offrendo modalità di reazioni nuove per il paziente, quest’ultimo si sentirà sufficientemente rassicurato per “cambiare” il proprio comportamento nella relazione interpersonale.” (De Coro, 1991). Come si evince, tale modello fonda le sue prerogative sull’importanza di poter formulare molto precocemente una ipotesi diagnostica basata fondamentalmente sulle convinzioni patogenetiche del soggetto, affinchè vengano monitorate continuamente le relazioni con il clinico e successivamente all’interno dell’esperienza psicoterapeutica. Del resto, questo discorso non rientra pienamente nel modo di pensare, largamente condiviso, e dell’agire terapeutico degli psicoterapeuti che si situano all’interno di una modalità relazionale dell’azione terapeutica o comunque iscritta all’interno di un campo definibile bipersonale? (Baranger, 1990).

La nozione di “campo”, infatti , presa a prestito dalla fisica sugli studi del campo elettromagnetico, come a tutti è noto, origina dal pensiero di Kurt Lewin e prende in considerazione l’assunto della totalità dei fatti coesistenti, concepiti come mutuamente interdipendenti. Forse è opportuno ricordare che la teoria di Lewin si basa su tre principi:

1. 1) Il comportamento è funzione del campo esistente nel momento in cui esso si produce;

2. 2) l’analisi comincia dalla situazione nel suo insieme a partire dalla quale si differenziano le parti;

3. 3)

Non abbiamo spazio in questa sede di soffermarci sulle stupefacenti osservazioni ed intuizioni di Lewin, ma come non pensare, ad esempio, che quando questo Autore parla delle dinamiche interne dell’individuo si riferisce a quello che chiama “bisogno” come un motore, nel soggetto, di adattamento alla realtà esterna. Non è forse vero come descritto in precedenza che questi, come altri concetti di Lewin, hanno anticipato lo studio, tra gli altri, dei sistemi motivazionali di Lichtenberg? e forse indirettamente anche alcuni studi dell’infant reserch?.

Bisogna riconoscere ancora una volta, come troppo spesso gli psicologi e gli psicoterapeuti dimenticano, l’ancoraggio alla psicologia generale da parte della psicologia clinica e della psicoterapia. Certamente, almeno secondo chi scrive, il rapporto psicologia clinica e cambiamento terapeutico rappresenta una chiave di lettura interessante per individuare clinicamente, e metodologicamente la riflessione su ciò che cambia in psicoterapia e come cambia, nonché della verifica e sull’efficacia della psicoterapia stessa.

Già anni fa si parlava di eclissi dell’interpretazione (Jervis, 1998) ed è evidente, ormai, anche da quanto sopra esposto, un netto spostamento degli autori verso una linea che privilegia il qui ed ora della relazione paziente-terapeuta. Ed è forse il ridimensionamento dell’importanza dell’interpretazione, anche se questa discussione tutt’ora è molto accesa (Green, 2005), che segna l’ideale passaggio tra la psicoanalisi classica e il pensiero psicoanalitico contemporaneo. Prodromo di tale spostamento, come anche accennato nella prima parte di questo capitolo, potrebbe coincidere in un qualche modo, con la tecnica attiva proposta da Ferenczi. Tale tecnica, come a tutti è noto, si esplica nella consapevolezza di agevolare il transfert inteso come ripetizione di investimenti pulsionali, che rende possibile una interpretazione dell’agire nel presente del paziente là dove non c’è apparente traccia di ricordi. L’esperienza emotiva correttiva assume, allora, una funzione terapeutica imprescindibile fornendo le basi per un attaccamento sicuro e nel favorire una capacità di problem solving al paziente. Al riguardo, infattici sono state in passato delle ricerche, come quella di Wallerstain (1986), che in uno studio presso la Menninger Foundation, illustrava la tesi che le strategie di sostegno avevano portato a cambiamenti strutturali duraturi come quelli dell’approccio interpretativo.

Sarebbe interessante, a questo punto, aprire un dibattito sulle differenze fra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica come tra i vari autori descritte bene ad esempio, da Gill, ma possiamo demandare questo argomento alle successive riflessioni.

Conclusioni

Per concludere si può dire che i meccanismi del cambiamento in terapia saranno sempre individuati in base alle caratteristiche dei due protagonisti della relazione terapeutica. In realtà interpretazione e relazione agiscono in sinergia.

Un altro aspetto, tuttavia, legato al primo è quello che possiamo definire “l’enfasi sull’interazione hic et nunc tra terapeuta e paziente rispetto alla ricostruzione”.

In “Ricordare, ripetere e rielaborare”, Freud fornì l’idea che gli agìti nella relazione terapeutica sono gli introietti della mente infantile. Questo assunto determina, allora, la necessità della verifica costante della modalità relazionale del paziente.

Transfert e controtransfert, di conseguenza, sono il palcoscenico principale della relazione terapeutica.

Particolare rilevanza nella psicoanalisi attuale, anche alla luce delle recenti implicazioni cliniche nella cura dei pazienti borderline, è determinata dalla capacità del terapeuta di far prendere coscienza al paziente delle sue modalità comunicative non verbali (si veda Gabbard e soprattutto Fonagy rispetto ai processi di mentalizzazione o Stern sul concetto di sintonizzazione intermodale).

Lo sforzo di questi modelli in realtà collega l’interpersonale con l’intrapsichico. Gli studi più recenti di neuroscienze, infatti, (Siegel, 2001) descrivono i processi mentali ancorati attorno a tre principi di base: il primo consiste nella modulazione di flussi di energia e di informazioni all’interno del cervello e fra cervelli diversi.

Il secondo principio contestualizza lo sviluppo psichico come processi di interazione fra aspetti di tipo neurofisiologico ed esperienze interpersonali, ed il terzo, sempre secondo Siegel (2001 pag. 1), consiste nel fatto che: “lo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali dipende dalle modalità con cui le esperienze, ed in particolare quelle legate a relazioni interpersonali, influenzano e modellano i programmi di maturazione geneticamente determinati dal sistema nervoso”.

In sintesi possiamo dire che: il cambiamento è una complessità di eventi e situazioni che il terapeuta quanto il paziente debbono sforzarsi di comprendere alla luce della relazione terapeutica, definendo la stessa, “il luogo dove si cerca di dare senso alle cose che accadono”.

Un secondo principio lo possiamo esprimere ragionando sul fatto che probabilmente ed in maniera comprensibile, non tutte le tecniche e le strategie sono utili per tutti i pazienti.

Questo secondo assunto rimanda in maniera incontrovertibile sia al discorso della diagnosi che della prognosi, ma soprattutto al discorso delle indicazioni terapeutiche, forse troppo spesso dimenticate dagli psicoterapeuti, asserviti profondamente ad una logica professionale di assoluta autoreferenzialità formativa, rispetto ad una logica psicologico–clinica che fonda la necessità sia della valutazione psicodiagnostica, sia degli interventi terapeutici migliori a favore del paziente, ristabilendo in questo modo il principio di Korchin riguardante la psicologia clinica, e cioè quello di acuire costantemente il benessere dell’individuo e la qualità della sua vita.

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